“Hic Habitat Felicitas”: il culto della fecondità e il piacere di vivere nell’antica Pompei
Pompei, I secolo a.C. – I secolo d.C. Un’epoca in cui la felicità non era un’astrazione, ma qualcosa di tangibile, quasi da toccare con mano. O, per meglio dire, da celebrare con un fallo, onnipresente, adorato, simbolo di prosperità e vita. Sì, perché nell’antica città romana, sepolta dalla cenere del Vesuvio nel 79 d.C., la felicità aveva un nome, un simbolo e un posto preciso dove “abitare”. Un rilievo con un fallo e l’iscrizione “Hic habitat felicitas” (“Qui abita la felicità”) ci racconta di un mondo Epicureo, edonistico, in cui la fecondità, il piacere e la prosperità erano valori sacri, da esibire senza alcuna vergogna, ma con il vanto del benessere in salute, dignità e prosperità.
Questo curioso reperto, oggi conservato nel Gabinetto Segreto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), proviene da un panificio nell’insula della Casa di Pansa. Non è un caso che un simbolo così esplicito fosse collocato proprio in un luogo di produzione e commercio: per i Romani, esattamente come per i greci dai quali è stata assorbita la cultura, la felicità era strettamente legata alla fecondità, intesa come capacità di dare “buon frutto”, sia in senso letterale che metaforico. Il termine latino felix indicava proprio questo: qualcosa o qualcuno che produce risultati positivi, che realizza le proprie premesse.
Ma cosa significava essere felix per un antico pompeiano? Significava vivere in armonia con il proprio destino, con la natura e con la società. Significava godere dei piaceri della vita, senza rinunciare a un’etica del benessere condiviso. Non a caso, l’augurio più bello che si potesse fare in latino era “felix sis”: “possa tu essere fecondo”. Un augurio che racchiudeva in sé il desiderio di prosperità, successo e realizzazione personale.
Pompei, con i suoi affreschi sensuali, i suoi bagni termali e i suoi banchetti sontuosi, era un vero e proprio tempio dell’edonismo. Qui, la filosofia epicurea – che esaltava il piacere come sommo bene – trovava una sua concretizzazione quotidiana. Ma attenzione: non si trattava di un piacere sfrenato e fine a sé stesso. Per gli antichi Romani, la felicità era anche una questione di equilibrio, di armonia con il mondo circostante.
Il fallo, simbolo di forza vitale e rigenerazione, era ovunque: dipinto sui muri, scolpito nelle statue, inciso negli amuleti. Non era un tabù, ma un talismano, un augurio di buona fortuna. E il panificio di Pansa, con il suo rilievo esplicito, ci ricorda che anche il pane – alimento base della dieta romana – era un dono della terra, frutto di una fecondità da celebrare e proteggere.
Oggi, questo reperto ci invita a riflettere su come il concetto di felicità sia cambiato nel corso dei secoli, nel nostro caso con l’invasione violenta dell’etica cristiana. Per i Romani, come per i greci, essere felici significava essere in sintonia con il proprio ruolo nel mondo, realizzando pienamente le proprie potenzialità. Un messaggio che, forse, potrebbe ancora insegnarci qualcosa.
E allora, perché non fare nostro l’augurio degli antichi? “Felix sis”: possiamo essere fecondi, nel senso più ampio del termine. Che sia nel lavoro, nell’amore, nei rapporti sociali ed economici, o nella semplice gioia di vivere, la felicità è sempre lì, pronta a “abitare” nelle nostre vite. Basta solo cercarla – e, perché no, celebrarla con un sorriso, magnificarla in ogni attimo, gustarla profondamente ed ispirare i nostri simili a fare altrettanto!
Per scoprire altri segreti dell’antica Pompei, cultura greco-romana e della sua eredità culturale, visita www.grecia.it, il portale che unisce Italia e Grecia in un viaggio attraverso la storia, l’arte e la filosofia dell’Europa e del mondo intero.
Formatore, sociologo, giornalista, editore.
Consulente organizzazione e comunicazione.
Coordinatore di progettazione europea internazionale.